A cura dell’Avvocato Giovanni Meliadò e dell’Avvocato Vincenzo Campellone
Studio Legale Meliadò
L’esplosione pandemica improvvisa che ha colpito il Pianeta, ed in particolar modo il nostro Paese, ha generato, per forza di cose, una maggiore esposizione degli esercenti la professione sanitaria, ritrovatisi a combattere un nemico sconosciuto e molto forte, il SARS-CoV-2 appunto, a richieste di risarcimento da parte dei pazienti.
In primo luogo è opportuno fare un passo indietro e operare un richiamo alla lesività, oggi più che mai, della Medicina Difensiva, che porta l’operatore Sanitario, per timore di esporsi a richieste di risarcimento del danno da responsabilità professionale da parte del paziente, a non prestare le attività che effettivamente dovrebbe prestare. Tutto ciò inevitabilmente comporta danni al paziente ed al sistema sanitario in toto anche in tema di contabilità.
Proprio per tali motivi, hanno avuto luogo alcune proposte/grida di aiuto da parte della Classe Medica al vaglio del Legislatore aventi per oggetto la richiesta di una limitazione della responsabilità medica alla sola colpa grave, come peraltro previsto dall’art. 2236 c.c., secondo cui, in caso di speciale difficoltà, il Prestatore d’opera non risponde se non in caso di dolo o colpa grave. Tuttavia è necessario specificare cosa si intenda per colpa grave, ed in applicazione all’emergenza pandemica che stiamo vivendo, appare necessario che il legislatore tenga conto del rapporto tra le risorse sanitarie disponibili presso le singole strutture sanitarie rispetto alla mole di pazienti presenti che, inter alia, ha portato all’utilizzo di personale sanitario non opportunamente qualificato, come da ultimo nel caso dei neo laureati in alcune strutture ai limiti del collasso.
Considerato quanto sopra, è ora opportuno operare una riflessione sui ritardi ed omissioni nella gestione dell’emergenza da diffusione del Coronavirus, imputabili sia a medici che a strutture sanitarie, partendo da quando l’Oms ha innalzato il livello di allerta per la diffusione del virus a “rischio globale molto alto”, dichiarando il 30 gennaio il SARS-CoV-2 emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale, tesi poi confermata anche in Italia dall’Istituto Superiore di Sanità. Ciò portava, il nostro Consiglio dei Ministri, in data 31 gennaio, a dichiarare lo stato di emergenza sanitaria, attivando gli strumenti normativi precauzionali previsti in questi casi e interrompendo i collegamenti aerei con la Cina. A quella data, dunque, l’Istituto Superiore di Sanità aveva dichiarato che i casi di Coronavirus erano attesi anche in Italia e faceva il punto sulle misure di precauzione da prendere, compreso l’uso delle mascherine.
Solo il giorno dopo (1º febbraio) dalle misure attuate dal Governo Italiano, l’Oms ha diffuso un Report riguardante i meccanismi di trasmissione del nuovo coronavirus diramando alcuni protocolli per la gestione dei potenziali fattori di rischio del personale sanitario nella gestione dell’infezione.
A questo punto, alla data del 1º febbraio, risulta difficile sostenere che all’epoca della diffusione del contagio negli ospedali lodigiani in cui si sono registrati i primi casi, il pericolo di diffusione del SARS-CoV-2 non fosse ancora noto, in quanto il cosiddetto “Paziente 1” si è presentato presso l’ospedale di Codogno il 18 febbraio, per poi essere sottoposto a tampone il 19 febbraio e risultare positivo solo il 20. Tuttavia, non sembra che la responsabilità di ritardi ed omissioni nella gestione del Virus, possa essere posta a carico dei singoli medici e degli operatori sanitari. Non è chiaro, anzitutto, se i necessari Dispositivi di protezione individuale (DPI) fossero effettivamente nella disponibilità degli operatori sanitari sin dal primo momento.
Il 2 febbraio 2020 venivano fornite, da parte degli Organi UE preposti, indicazioni sulle misure tecniche e sulle risorse utili a ridurre il rischio di trasmissione di SARS-CoV-2 in ambienti sanitari e laboratori dell’UE e con le quali venivano esortate le autorità di sanità pubblica “a pianificare forniture sufficienti di Dpi per i loro operatori sanitari e a garantire che vi siano anche in atto le procedure per assicurare la capacità di intervento”.
Pertanto, eventuali responsabilità degli operatori sanitari, ove mai sussistenti, andranno quindi analizzate anche sulla base delle indicazioni rese disponibili. Come noto, infatti, a norma dell’art. 6 L. 24/2017, in tema di responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria, la punibilità per imperizia è esclusa se sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida, cui, nel caso di specie, andranno equiparate le indicazioni fornite dagli organi ministeriali.
Ebbene, oltre 20 giorni prima dal primo tampone positivo del c.d. Paziente 1, il Ministero della Salute aveva fornito indicazioni per l’individuazione dei casi sospetti di coronavirus, nei quali ricomprendere, oltre che quelli con diretti collegamenti con la Cina, anche quelli relativi a soggetti che manifestino “un decorso clinico insolito o inaspettato…” ed aveva fornito successivamente, ma sempre ben prima del primo caso accertato, nuove modalità di identificazione dei “casi sospetti”, ovvero: (i) una persona con infezione respiratoria acuta grave – SARI; “e” (ii) assenza di altra eziologia che spieghi la presentazione clinica; “e” (iii) storia di viaggi o residenza in aree a rischio della Cina e/o operatore sanitario che abbia avuto contatti con pazienti infettati.
Di conseguenza, non può ritenersi imputabile ai medici la responsabilità per eventuali omissioni nel resoconto storico fornito dal paziente che, su specifica richiesta, abbia omesso di riferire di contatti diretti e/o indiretti con la Cina. Alla luce delle circolari all’epoca vigenti, non vi era infatti alcuna indicazione che suggerisse di reputare sospetti casi privi di legami con le aree a rischio della Cina. Gli operatori sanitari sono stati a volte abbandonati a loro stessi e gravati di una responsabilità eccessiva (si pensi anche ai medici chiamati a dover valutare la gravità dei sintomi influenzali o a dover rilasciare la certificazione di guarigione a studenti – almeno prima della chiusura delle scuole – o a lavoratori quando richiesta dai datori, il tutto senza poter effettuare apposito tampone, la cui applicazione è stata peraltro fortemente limitata). Eventuali responsabilità (alle quali si unisce anche la responsabilità delle strutture sanitarie nei confronti degli operatori dei servizi/esercizi a contatto con il pubblico, ex D.Lgs. 81/2008 e Circolare n. 3190 del 3.2.2020, che impongono ai datori di lavoro di tutelare detti soggetti dal rischio biologico) andranno esaminate nel concreto, tenendo conto, delle Linee Guida accreditate, della possibilità/impossibilità di approvvigionamento delle DPI necessarie e, in particolare, della situazione di incertezza e continua evoluzione che ha portato a fornire agli operatori sanitari indicazioni talvolta contraddittorie.