A cura dell’Avvocato Giovanni Meliadò e dell’Avvocato Vincenzo Campellone
Studio Legale Meliadò
Con la Sentenza della Suprema corte oggi esaminata (Cassazione n. 4323/2022 del 8.2.2022), affronteremo la responsabilità penale per il reato di omicidio colposo del medico che non è presente al momento della trasfusione, con la quale viene somministrato al paziente un gruppo sanguigno incompatibile, effettuata dalla sola infermiera.
Per la Suprema Corte, che ha confermato le Sentenze dei due gradi di giudizio precedenti, non rileva che al momento della trasfusione l’infermiera avesse o meno pazienti da seguire del medico, dovendo tale procedura essere effettuata dopo che il medico, proprio nella fase precedente all’inserimento della sacca nella cannula, si allontanava per controllare i monitor dei pazienti più gravi. Oltre a ciò non rileva neppure che il paziente fosse già in condizioni critiche e avesse probabilità nulle di sopravvivenza, perché è indubbio che la somministrazione di un sangue incompatibile, ne abbia cagionato la morte, riducendo fortemente le seppur minime chances di sopravvivenza.
I due Sanitari sono stati imputati per aver cagionato, in cooperazione tra loro, la morte di un paziente, perché con colpa generica, non hanno osservato la procedura trasfusionale prevista dal protocollo ospedaliero adottato dalla ASL, effettuando così una trasfusione per 15 minuti di 50 ml di sangue di tipo “A Rh positivo” al paziente con gruppo sanguigno “0 Rh positivo.”
Il Tribunale prima e la Corte d’Appello poi hanno quindi ritenuto sussistente il nesso di causa tra la condotta dei sanitari e il decesso del paziente, perché l’infusione di sangue di un gruppo incompatibile a quello del paziente, ha fatto precipitare la pur gravissima situazione clinica, eliminando così le limitate chances di sopravvivenza della vittima. La procedura specifica, precisa poi il tribunale, doveva essere effettuata con la sorveglianza del medico, ma nel caso specifico l’imputato aveva lasciato l’infermiera a eseguire la procedura da sola.
Il medico nel ricorrere in Cassazione rilevava a sua discolpa che, dagli esami diagnostici eseguiti sul paziente nei giorni precedenti, era emerso un quadro complessivo gravissimo, con possibilità di sopravvivenza pari a zero e che pertanto la trasfusione non è stata la causa del decesso, tanto è vero che la mattina dello stesso giorno della commissione del presunto reato, era stata praticata la somministrazione forzata e manuale di aria.
Oltre a ciò sempre il medico rilevava di aver provveduto a controllare la sacca di sangue in presenza dell’infermiera, la quale, doveva solo collegarla alla cannula inserita nel braccio del paziente, compito esecutivo che spettava alla stessa, che aveva solo due pazienti da seguire, mentre lui quel giorno ne aveva dieci e si era allontanato solo di qualche metro per controllare i monitor dei pazienti più gravi.
L’infermiera, allineata alle tesi difensive del medico, nel ricorso in Cassazione contestava all’Accusa di non aver accertato le reali probabilità di sopravvivenza del paziente, da giorni in condizioni gravissime e che, in ogni caso, il reato, per il tempo trascorso, doveva considerarsi prescritto.
La Cassazione ha dichiarato entrambe i ricorsi inammissibili sia in ordine alla ricostruzione della vicenda che alla dimostrazione del nesso, in quanto argomentata impeccabilmente sia dal giudice di primo che di secondo grado, avendo peraltro il secondo ribadito che “non può porsi alcun dubbio sulla sussistenza del nesso causale tra le condotte d’infusione del sangue di un gruppo incompatibile e la morte del (paziente) in quanto la condotta errata ha trasformato in via immediata la situazione pur gravissima d’insufficienza mono organo in un’insufficienza multi organo che ha comunque inciso ed eliminato le concrete, sia pur limitate chances, di sopravvivenza del paziente.”
Per quanto riguarda il secondo motivo sollevato dal medico, la Cassazione ha confermato quanto già chiarito dalla Corte di appello, sul fatto che la presenza del medico al momento della preparazione della trasfusione è richiesta non per evitare errori di valutazione, ma per ovviare a problematiche legate proprio all’esecuzione della procedura stessa, in quanto “precauzione rivolta a ottenere proprio un controllo esterno sull’individuazione del paziente, della sacca e della compatibilità del gruppo sanguigno.”
Nel caso di specie è emerso come la procedura sia stata interrotta proprio prima dell’allacciamento della sacca alla cannula, situazione che richiedeva di ripetere la procedura proprio per evitare ciò che si è verificato, ossia lo scambio della sacca, commentando peraltro quanto chiarito dalle procedure del Ministero della Salute sul tema: “Un medico e un infermiere devono procedere ai controlli d’identità, corrispondenza e compatibilità immunologica teorica confrontando i dati presenti su ogni singola unità di emo-componenti con quelli della richiesta e della documentazione resa disponibile dal servizio trasfusionale, quali il referto di gruppo sanguigno e le attestazioni di compatibilità delle unità con il paziente. Tali controlli devono essere documentati. L’identificazione va fatta al letto del paziente e dunque al momento della trasfusione.”
Il medico quindi, come ha affermato correttamente la Corte d’Appello, non doveva lasciare da sola l’infermiera a eseguire la trasfusione, proprio perché, come noto anche al Ministero, gli errori più frequenti nelle trasfusioni sono errori umani, confermando quindi la responsabilità in quanto “in caso di condotte colpose indipendenti non può invocare il principio di affidamento l’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità e imprevedibilità.”