A cura dell’Avvocato Giovanni Meliadò e dell’Avvocato Vincenzo Campellone
Studio Legale Meliadò
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 27353 depositata il 22 ottobre 2024, ha ribadito un principio fondamentale in materia di responsabilità medica: in presenza di postumi permanenti, il giudice può accertare in via presuntiva la perdita patrimoniale subita dalla vittima e liquidare il relativo danno secondo criteri di equità. Questo orientamento trova applicazione anche nei casi in cui il danneggiato sia un minore.
La vicenda oggetto del giudizio riguarda il ricorso di una donna, la cui nascita è stata segnata da un grave errore medico da parte del personale sanitario dell’Asl di Reggio Calabria. Durante il parto, una condotta negligente ha causato alla donna un danno biologico permanente pari al 25%, che includeva un grave deficit nello sviluppo dell’arto sinistro e una anisometria miopica dell’occhio sinistro.
Nel giudizio di primo grado ed in appello, i giudici avevano riconosciuto un risarcimento pari a 220.000 euro per il solo danno biologico, ma avevano respinto la richiesta di risarcimento per il danno patrimoniale da perdita di capacità lavorativa. Secondo i giudici di merito, «trattandosi di un minore non percettore di reddito», non era possibile superare «un’incertezza sulla qualificazione e quantificazione delle varie voci di danno se non con una prova particolarmente rigorosa». La sola esistenza di postumi invalidanti non era stata ritenuta sufficiente per presumere una perdita futura di guadagno: spettava al danneggiato dimostrare, «anche presuntivamente, che il danno alla salute gli [aveva] precluso l’accesso a situazioni di studio o di lavoro tali che, se realizzate, avrebbero fornito anche soltanto la possibilità di maggiori guadagni».
I giudici di merito avevano inoltre sottolineato che, oltre ai meri rilievi peritali secondo cui alla ragazza «piaceva studiare», non erano emerse prove di particolari “inclinazioni o aspirazioni lavorative” della danneggiata, né erano stati dimostrati obiettivi professionali specifici dei suoi genitori che avrebbero potuto influenzarla. Non era stato dedotto né provato, inoltre, alcun impedimento concreto allo svolgimento di uno specifico lavoro futuro.
Questa impostazione è stata radicalmente ribaltata dalla Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione. Secondo la Suprema Corte, il caso in esame presenta una «invalidità permanente nella elevata misura del 25%», e le conclusioni dei giudici di merito mostrano «una sostanziale obliterazione del forte rilievo indiziario che occorre invece attribuire, anche sul versante del danno reddituale, al primo dato, e dà in effetti riscontro ai denunciati vizi motivazionali e di violazione di legge».
La Cassazione ha richiamato il consolidato principio secondo cui, nei casi di elevata invalidità permanente, è «altamente probabile, se non addirittura certa, la menomazione della capacità lavorativa ed il danno che necessariamente da essa consegue». In tali circostanze, «il giudice può procedere all’accertamento presuntivo della predetta perdita patrimoniale, liquidando questa specifica voce di danno con criteri equitativi». Inoltre, «la liquidazione di detto danno può avvenire attraverso il ricorso alla prova presuntiva, allorché possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’infortunio».
Richiamando un precedente del 2018 (Cass. n. 11750/2018), la Suprema Corte ha evidenziato che, in situazioni analoghe, «il danno da riduzione della capacità di guadagno subìto da un minore in età scolare, in conseguenza della lesione dell’integrità psico-fisica, può essere valutato attraverso il ricorso alla prova presuntiva». Tale valutazione deve tenere conto «delle condizioni economico-sociali del danneggiato e della sua famiglia e di ogni altra circostanza del caso concreto» e procedere alla sua quantificazione secondo criteri equitativi.
In conclusione, la Suprema Corte ha criticato duramente l’approccio adottato dalla Corte d’Appello, che aveva preteso una prova rigorosa della compromissione della capacità di guadagno da parte di una persona ancora in età non lavorativa. Secondo l’ordinanza, questa impostazione ha «imposto «un onere di dimostrazione eccessivamente difficoltoso» alla danneggiata, trascurando «il rilevantissimo valore presuntivo del danno biologico accertato in misura rilevante rispetto al presumibile danno alla capacità lavorativa».